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sabato 10 dicembre 2016

Ottimo aticolo del Post sulla questione Banche-Referendum

Cosa c’entra il referendum con le banche

I dati sulla navetta parlamentare



Incollo anche da L'Espresso

Quando ciò è accaduto [più passaggi], però, i tempi si sono allungati a dismisura, non c'è che dire: ci sono voluti 457 giorni anziché 237, quasi il doppio. Anche in questo caso, a ogni modo, i provvedimenti del governo ne hanno risentito assai meno: quelli sottoposti a navetta hanno impiegato in media 229 giorni per essere approvati, ovvero un paio di mesi in più del solito (156 giorni). Tutt'altra storia se la legge era di iniziativa parlamentare: sono occorsi mediamente 828 giorni anziché 392.
Il ritardo provocato dalle navette è dunque un falso mito? Il giudizio "tecnico" di Openpolis è sospeso. Di certo, osserva l'associazione, "troppo spesso si associa in automatico alla lunghezza dell’iter un’accezione negativa, ma la velocità di discussione non necessariamente equivale a un lavoro migliore o più efficiente". Ed è già accaduto varie volte che il bicameralismo paritario abbia salvato il governo da errori contenuti nelle leggi. 




argomenti per il SI






Una vittoria di Matteo Renzi, secondo l'opinione del Financial Time, non allontanerebbe l'Italia dal rischio politico. La preoccupazione principale del premier sarebbe quella di rafforzare il suo partito in previsione delle elezioni del 2018, trascurando altri interessi prioritari per il paese, come le riforme economiche. Il giornale auspica anche il verificarsi di un altro "Nazareno bis", dove Renzi troverebbe un accordo con Forza Italia per modificare la legge elettorale e indebolire il potere del Movimento 5 Stelle nelle prossime elezioni.


Nonostante in Italia regni l’incertezza sul risultato, Bruxelles sembra aver già trovato una risposta alla prima domanda: funzionari e rappresentanti istituzionali danno per certa la vittoria del No. E si interrogano - preoccupati - sulle conseguenze. Preoccupati perché quasi tutti fanno il tifo per Renzi: i suoi ammiratori ma anche chi ha maldigerito le sue recenti uscite di sfida all’Ue (e sono parecchi). In fondo la linea l’ha dettata lo stesso Jean-Claude Juncker: «Non vorrei vincesse il No» ha detto il presidente della Commissione Ue nell’intervista di domenica scorsa a La Stampa. Una presa di posizione forte, che in Italia gli è costata l’accusa di «ingerenza» da parte dell’opposizione.
(da lastampa.it)


In una riforma che poteva esser certamente più profonda e innovatrice, gli aspetti positivi superano quelli negativi. A fronte della situazione in cui versa l’affaticato (eufemismo) sistema istituzionale italiano, meglio cambiare che lasciare tutto com’è. I fautori del No, con ottimismo di maniera, sostengono che una riforma migliore è possibile: bene, ci mettano mano nella prossima legislatura e lo dimostrino. Certo, fare e disfare non ha gran senso: ma è già accaduto (col famoso titolo V) e nulla impedisce a questa agguerrita schiera di «riformatori in sonno» di lavorare ad un progetto di riforma migliore (ma vedrete che, passato il referendum, nessuno ne parlerà più...). Ancor più evidente è l’opportunità di un Sì se si riflette sugli effetti - in Italia e in Europa - di una eventuale vittoria del No. Per stare al nostro Paese, ci si ritroverebbe sicuramente senza un governo, con di fronte orizzonti incerti e scuri (eufemismo) e la quasi sicurezza che qualunque nuova soluzione di governo venisse trovata sarebbe più debole, disomogenea e precaria di quella attuale. Non è situazione nella quale risulterebbe piacevole ritrovarsi: soprattutto alla luce del fatto che sarebbe necessario lavorare a due nuove leggi elettorali rispetto alle quali i fautori del No hanno idee distanti e talvolta opposte. 



La stampa straniera  -  Washington Post


Per l’economista del WaPo uno dei problemi che ha “paralizzato” l’economia italiana– il virgolettato è una citazione da uno studio di Jacob Funk Kierkegaard del think tank americano Peterson Institute for International Economics – è il bicameralismo perfetto, con la Camera e il Senato che devono passare leggi identiche, che finiscono ostaggio di “coalizioni ingombranti” all’interno delle quali non c’è modo di mettere “limiti efficaci ai piccoli partiti” e con politici che spesso cambiano schieramento. “È presumibile che se il referendum passa il presidente del Consiglio Matteo Renziproporrà policy che riguardano il mercato del lavoro, le tasse e la spesa pubblica”, scrive l’economista americano.
E se non va? L’esito negativo viene esposto dal fondo usando le parole di un altro economista, Desmond Lachman, già alto funzionario del Fondo monetario internazionale, scritte in un contributo su The Hill: “L’Italia potrebbe essere davanti a un periodo prolungato di incertezza politica ed economica. Tale risultato potrebbe mettere in discussione l’appartenenza del paese alla zona Euro e questo potrebbe sollevare questioni fondamentali per quanto riguarda le possibilità della zona euro di sopravvivenza nella sua forma attuale”.
(da qui)

-  Stefano Boeri sul Corriere

Boeri, perché secondo lei è così importante che domenica prevalga il Sì?
«Intanto per la revisione del Titolo V: ci sono tante materie che hanno bisogno di una maggiore regia statale. Penso alla sanità, ai trasporti, all’energia. Oppure, da urbanista, mi viene in mente il tema decisivo del consumo di suolo, dove purtroppo gli sforzi di qualche Regione non hanno prodotto risultati significativi. E il bicameralismo spesso rappresenta un ostacolo a politiche urbane innovative. Faccio solo un esempio: qualche anno fa mi trovai a promuovere un progetto di legge per la musica dal vivo che avrebbe rivitalizzato il settore e dato lavoro a migliaia di giovani. Risultato: due anni d’interminabile ping pong tra le due Camere, uno stallo inaccettabile, sfibrante. Perché in questa situazione alla fine a vincere sono sempre i piccoli poteri di veto, le corporazioni, le microlobby».

 Questo appuntamento sta intanto lacerando il campo della sinistra...
«Una sinistra che vuole conservare lo status quo semplicemente non è sinistra. La questione in gioco mi pare proprio questa: da una parte c’è chi — anche con argomenti condivisibili — rischia di conservare i potentati locali e tutelare le capacità di veto delle minoranze individualiste. Dall’altra chi cerca di innovare, sveltendo e dando forza ai processi decisionali e democratici. Ecco, tra questi due campi non credo possano esserci reali dubbi su chi rappresenti davvero la sinistra».






(tutte le domande e risposte sono incollate da corriere.it che ha approntato una sorta di pagina FAQ molto utile)





Vorrei sapere da quanti votano No che intenzioni hanno sulla riforma costituzionale e soprattutto, in caso di vittoria del No, con chi vogliono riformare la Carta.

Questo dovrebbe essere chiesto, appunto, alle diverse anime del No. Ma ecco un breve riassunto di quanto emerso.

Per la sinistra dem, quella di Bersani e Speranza, Renzi può restare al governo: a quel punto si cambierà la legge elettorale, con maggioranza più ampia possibile.

Anche Massimo D’Alema è su posizioni simili: «Se vincesse il No, sarebbero impossibili le elezioni anticipate, si dovrebbe rifare la legge elettorale, e quindi ci sarebbe bisogno di un governo, che può essere l’attuale». D’Alema ha presentato anche una controproposta di riforma in tre punti: riduzione del numero dei parlamentari (da 430 deputati e 215 senatori); solo la Camera vota la fiducia al governo; una commissione che eviti la navetta tra Camera e Senato.

Per il Movimento 5 Stelle si deve andare a elezioni subito. Per la Camera, si voterà con l’Italicum. E per il Senato? Con un sistema proporzionale su base regionale (il cosiddetto Consultellum, perché viene fuori dalla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il Porcellum), che rende di fatto necessarie le larghe intese.

Anche la Lega di Matteo Salvini vuole elezioni immediate.

Per Forza Italia? Il partito è diviso tra chi vuole andare subito alle urne e chi apre a un governo di scopo, con una maggioranza larga, per rifare la legge elettorale. Berlusconi vorrebbe una riforma presidenziale: «Diciamo No perché dopo sia possibile approvare, tutti insieme, una riforma che deve contenere la scelta da parte degli elettori del presidente della Repubblica, un taglio dei parlamentari, il vincolo di mandato, per cui un eletto non può cambiare bandiera senza dimettersi, un limite costituzionale alle imposte, una vera riforma delle Regioni».


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In cosa consistono le cosiddette derive autoritarie? Il premier e il presidente della Repubblica avranno più poteri se passa la riforma?



In cosa consiste, o meglio, esiste – visto che per i sostenitori del Sì, è evidente, non c’è – la «deriva autoritaria»? È l’espressione iperbolica, cioè tirata al massimo, di un tema, quello dei poteri del premier e del governo, sollevato dal fronte del No. Che punta il dito, in sostanza, sull’effetto «combinato» della riforma costituzionale con l’Italicum, la legge elettorale in vigore da luglio: la Camera, nella Carta riscritta dalla legge Renzi-Boschi, approva la gran parte delle leggi da sola, senza passaggi vincolanti in Senato; e, alla Camera, l’Italicum assegna la maggioranza dei seggi (340 su 630) alla lista vincitrice. Su questa maggioranza può contare il premier, espressione del primo partito.

Cosa replica il fronte del Sì? Che l’Italicum non ha niente a che fare con il quesito del 4 dicembre. È una legge ordinaria: è già in vigore e, vinca il Sì o il No, può cambiare con il semplice voto del Parlamento (il dibattito su come modificarla è stato avviato, ma bisognerà vedere a che risultati porterà). Insomma, è un’altra cosa rispetto alla riforma. Che non riguarda la forma di governo, non tocca la prima parte della Carta, così come nessun articolo della legge Renzi-Boschi assegna direttamente più poteri al premier.

Quello che la riforma affronta invece direttamente è la capacità del premier e del governo nel processo legislativo per quanto riguarda provvedimenti urgenti e decreti legge. Introduce una corsia preferenziale per l’esecutivo: il «voto a data certa» per i provvedimenti indicati come essenziali per l’attuazione del programma (in pratica, il governo può chiedere alla Camera di inserire un testo tra le priorità, per arrivare al voto definitivo in 70 giorni al massimo). Dall’altro lato, però, vengono ulteriormente definiti i limiti ai decreti legge, strumento con cui il governo può legiferare: già riservati oggi dalla Carta a casi di straordinaria «necessità e urgenza», con la riforma dovranno inoltre riguardare «misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». L’uso eccessivo dei decreti, sui temi più diversi e oltre i casi di necessità e urgenza, è spesso stato motivo di polemiche. A cominciare dai numeri di questa legislatura: delle 241 leggi da marzo 2013 a oggi, 196 sono di iniziativa governativa, 68 i decreti legge.

Non cambieranno i poteri del presidente della Repubblica (certo, scioglierà solo la Camera, ma il Senato muta di ruolo e funzione). Sarà modificato il modo in cui viene eletto.


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A proposito del ruolo del Senato. È vero che certe leggi devono essere aporovate anche dal Senato e per tanto si ricrea il ping pong con la Camera?



La riforma prevede, nella gran parte dei casi, che solo la Camera approvi le leggi: il Senato può chiedere modifiche, ma anche non essere ascoltato. Ci sono però alcune eccezioni, per cui è previsto il procedimento bicamerale (Camera e Senato devono approvare lo stesso testo). L'elenco è nel nuovo articolo 70.

Ci sono le leggi di garanzia: quelle costituzionali (rimane con doppia lettura e referendum), che riguardano le minoranze linguistiche o i referendum. Che autorizzano la ratifica dei trattati sull'appartenenza dell'Italia alla Ue o relative a alla formazione delle politiche dell'Unione.

Ci sono poi le leggi che riguardano il Senato (legge elettorale e casi di incompatibilità) o l'ordinamento degli enti territoriali (ordinamento di Comuni e città metroplitane, partecipazione delle Regioni alla formazioni di atti Ue o internazionali, passaggio di un Comune da una Regione a un'altra).

Secondo una simulazione effettuata dal governo, sulle 252 leggi approvate in questa legislatura, solo 5 con la riforma avrebbero avuto procedimento bicamerale. Ma il «ping-pong», oggi, quante leggi riguarda? Sono 50, su 252, le leggi che hanno fatto «navetta» cioè per le quali non sono bastati due passaggi, uno alla Camera uno al Senato. In 43 di questi casi il «ping-pong» si è risolto in un solo passaggio in più, prima del via libera definitivo. Altre cinque leggi hanno richiesto 4 passaggi. Oltre sono andate due leggi: omicidio stradale e, naturalmente, la riforma della costituzione oggetto del referendum. 


Il Senato farà da raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Parteciperà alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea.

I nuovi senatori faranno anche verifiche e valutazioni: sull'attività delle pubbliche amministrazioni, sull'impatto delle politiche Ue sui territori. Verificano l'attuazione delle leggi dello Stato. Esprimono pareri sulle nomine di competenza del Governo. 



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È vero che con il nuovo articolo 117 saremo ancor più vincolati alle leggi e disposizioni dell Europa? Nel quesito referendario non è citato?
 

Sono numerosi i lettori che chiedono lumi sull’articolo 117: si cede definitivamente la sovranità nazionale a Bruxelles? La notizia di un’Italia schiava dell’Europa con la riforma - accompagnata dal classico commento «lo tengono segreto» - ha avuto ampia circolazione sui social network, e non solo. È meglio allora fermarsi a guardare cosa dice il testo.

Ecco come cambia l’articolo 117:
«La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali ». Cosa prevede oggi la nostra Costituzione (e come resterebbe dunque in caso di vittoria del No)?
«La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Il dibattito, insomma, nasce tutto dalla sostituzione di «comunitario» con «dell’Unione europea». Giudicate voi. Per quanto riguarda la domanda sul quesito: si parla genericamente di modifiche del Titolo V (che contiene l'articolo 117).



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Quanto e su cosa si risparmierà se vince il Sì al referendum?


Maria Elena Boschi – ministra delle Riforme che a questo testo, insieme a Matteo Renzi, dà il nome – parlando alla Camera ha quantificato in 500 milioni circa i «risparmi immediati»conseguenza della riforma (sulla base dei minori costi annui).
Così suddivisi:
150 milioni dalla riforma del Senato (80 milioni per la riduzione di indennità e rimborsi dei senatori e altri 70 tra commissioni e rimborsi ai gruppi);
320 milioni dal superamento delle Province;
20 milioni dell’abolizione del Cnel.
Totale 490 milioni

Questi i numeri del governo. Sui quali, però, si è presto scatenata la polemica. Vediamo qui le critiche che maggiormente hanno colto il segno.

I risparmi dall’abolizione delle Province sono già frutto di una legge ordinaria, quella Delrio del 2014: è con quel testo che scompaiono le cariche elettive, e i loro compensi, e che gli enti sono svuotati di buona parte delle competenze.

Anche il capitolo Cnel è stato contestato. Un documento della Ragioneria dello Stato calcola 8,7 milioni di euro di risparmi (già la legge di Stabilità 2015 ne aveva sforbiciato i costi per 10 milioni).

Lo stesso documento fa poi stime di risparmi sul Senato diverse da quelle della ministra: 49 milioni, in totale, e non 80. Dalle indennità dei senatori si risparmiano 40 milioni, più altri 9 alla voce diaria, perché – anche se sarà previsto un rimborso per gli spostamenti e pernottamenti a Roma, ad esempio – i membri di Palazzo Madama saranno comunque 100 e non 315.

Anche sui risparmi per le commissioni e i gruppi parlamentari del Senato la cifra è stata contestata: il totale della spesa per le due voci – ha notato Lucio Malan (FI) – è di 22,7 milioni di euro. Che includono stipendi per il personale con relative tasse (soldi che poi tornano, quindi, allo stato).

La riforma prevede poi l’abolizione dei rimborsi ai gruppi dei consigli regionali: in tutta Italia costano 30 milioni (ricordiamo però che le Regioni a statuto speciale non saranno toccate). E un tetto agli stipendi di governatori, assessori e consiglieri regionali: non prenderanno più del sindaco della città capoluogo.

Un lavoro sui costi, voce per voce, è stato fatto da Roberto Perotti su Lavoce.info. Arriva a una stima totale di 160 milioni.


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Quale sarà realmente il risparmio dal punto di vista economico rispetto alla situazione attuale?

Parlando, in senso stretto, di risparmi, considerando le stime dalle più moderate (intorno ai 160 milioni) alle più ottimiste (i 500 milioni annunciati da Maria Elena Boschi), la forbice è tra lo 0,02 e lo 0,06 della spesa pubblica (intorno agli 830 miliardi).